Nuovo giro, nuovo viaggio, oggi si parte dallo Swaziland (dove ho trascorso dei momenti bellissimi) a direzione Maputo. Se c’è una cosa che ho imparato, ma su cui non faccio ancora affidamento, è che i taxi locali a lunga percorrenza non partiranno mai la mattina presto.
I taxi sono camioncini da quindici persone che partono una volta che tutti i posti sono stati riempiti. Alcune delle lunghe tratte hanno dei carrelli dietro dove mettere i bagagli ma in generale ci si incastra dentro tipo tetris per farci stare tutto e tutti. Sono molto simili a quelli già visti in Nepal, in Messico e in Thailandia in realtà.
Sto elaborando una teoria ed è quella per cui, siccome tutti inconsciamente sanno che mai si partirà presto, la maggior parte delle persone si presentano tra le 10:00 e le 10:30, con tutta la calma che caratterizza questi popoli. Così alzarsi all’alba è pressoché inutile anche se ancora non mi sento di rischiare e alle 9:00 massimo sono pronta in posizione cercando di accaparrarmi per lo meno un posto comodo. Che irrimediabilmente si rivelerà la scelta sbagliata, che poi chissà se esiste una scelta giusta.
Oggi al solito sono arrivata presto e siamo partiti a mezzogiorno: una giornata buttata dal punto di vista della visita della città, una giornata guadagnata in termini personali.
Un’altra cosa ho imparato facendo, invece, la hostess per tanti anni nei locali e convegni di Milano: se sei simpatica e sicura di te stessa, tutto sarà più semplice, in tutto il mondo. Così appena arrivo il ragazzo dell’autobus viene con fare un po’ sbruffone verso di me:
“Falsas Portugues?” (Parli portoghese)
“Sim”
E così comincia a parlarmi veloce convinto di mettermi in difficoltà, ma si sbaglia. Gli rispondo, rimane sorpreso. Mi sono appena guadagnata il suo rispetto e ora sarà tutto più semplice.
Prendono il mio zaino e lo mettono nel cartellino dietro promettendomi che non gli succederà nulla, speriamo bene. Mi siedo nel sedile in fondo accanto alla finestra vicino a un signore sulla cinquantina. Poco dopo questo prende coraggio e comincia a parlarmi in swazi ma non capisco una parola: va bene in portoghese, va bene l’inglese, va bene in francese, va bene pure lo spagnolo ma lo swazi no, non posso farcela. Gli chiedo se parla inglese ma scuote la testa fortuna che con il portoghese ci capiamo e iniziamo a chiacchierare, si chiama Sergio.
Mi racconta che è da giugno che è qui a Manzini per lavoro, che la sua famiglia è in Mozambico e che finalmente sta tornando per il matrimonio della sorella e fino ad aprile potrà stare a casa. Ha comprato due televisori al plasma e non li perde di vista, sono il frutto di tanti giorni di duro lavoro e sudore.
Ad un certo punto toglie dalla grande borsa di tela una di plastica, scioglie il nodo e estrae un asciugamano ben piegato, lo apre e dentro c’è un fazzoletto arancione, anch’esso perfettamente chiuso. Lo spiega e dentro ci sono quattro fotografie: una di quando aveva vent’anni, una in cui è vestito da Zorro, una davanti a una pianta di fiori rosa e una della moglie con il figlio.
Cavolo, ora con l’avvento dei telefoni non so quanti di poi portino in viaggio fotografie avvolte in fazzoletti colorati da guardare quando la nostalgia di casa ci stringere lo stomaco. Personalmente guardo quella della mia mamma e del mio papà nel profilo di WhatsApp, che tristezza.
L’omino dell’autobus ogni tanto sbuca al mio finestrino a farmi qualche battuta; al solito mi chiedono quanti figli, perché non sono sposata, che ci faccio da sola.
“Sai che una della tua età qui ha già almeno tre bambini?”
“Lo so ma in Italia si dice che gallina vecchia fa buon brodo e non sai che minestra che faccio”
Ridono entrambi e il mio pensiero corre alla mia migliore amica del liceo che proprio oggi ha finalmente stretto in braccio la sua piccolina. Vedere la foto di quella piccola patatina e leggere le sue parole di felicità mi hanno riempito il cuore e gli occhi.
Ci raggiungono gli amici di Sergio e mi offrono una banana, facciamo qualche selfie e divido con loro il cioccolato rimasto nella mia borsa. Poco dopo arrivarono finalmente i tre ragazzi che mancano prima di partire, uno mi si siede accanto ed inizia a parlarmi in francese, si chiama José, e sento il mio cervello sbuffare e dirmi che prima o poi entrerà in sciopero se non gli do un po’ di tregua tra culture, lingue, fusi orari, paesaggi nuovi.
Il ragazzo dell’autobus mi chiede il numero WhatsApp per far due chiacchiere,
“ma di cosa parliamo poi?” gli chiedo,
“di Dio” mi risponde e tutti nel pulmino ridono.
Sergio scende e ritorna poco dopo, mi apre davanti un sacchetto di plastica con una grossa bottiglia di coca cola e una lattina, per me. Non so a voi, ma a me mica succede tutti i giorni che qualcuno vada a prendere da bere per sé e i suoi amici e torni con qualcosa per me. Quanti pregiudizi abbiamo tutti da lavarci prima di poter veramente vivere in armonia.
Finalmente sembrerebbe che siamo per partire, ma no, ora siamo in troppi e ci spostano su un pulmino più grande. Ok, perderemo altro tempo ma staremo decisamente più comodi e la gamba che già stava formicolando avrà tregua e non rischierà la cancrena, meno male.
Il tempo di accomodarci e sale un predicatore bibbia alla mano a leggere qualche passo e benedire il nostro viaggio: considerando come guidano gli autisti di autobus di tutto il mondo, non può che giovarci! Ovviamente non capisco una parola e il mio compagno di sedile, quello che mi parla in francese, mi chiede se vado in chiesa.
Potrei dire di sì e sbrigarla facile ma decido di dirgli la verità: non vado più in chiesa da quando al liceo persi un amico in un incidente e pochi mesi dopo il fratello di una compagna di classe. Ricordo che durante la cerimonia sua madre disse: “ora lui è in un posto migliore”. Quel giorno pensai che il suo posto migliore era vicino a chi lo amava, non ovunque si trovasse e che non avevo bisogno di trovare consolazione e forza in qualcosa che non so se esiste per davvero.
È normale che esser cresciuta in ambiente cattolico mi abbia trasmesso i valori e un’idea di giusto e sbagliato fortemente legata alla religione ma preferisco pensare con la mia testa e far le mie scelte indipendentemente da un dio che può castigarmi. In ogni caso credo di comportarmi abbastanza bene e che se mai un giorno ci dovessimo davvero incontrare, non avrà molto da rimproveri e non sarà l’andare in chiesa o pregare che farà la differenza.
Salutato il predicatore finalmente partiamo, il mio zaino è lì tra i mille bagagli e sono pronta ad accoccolare la testa sul sedile e dormire, con Sergio alle mie spalle che so veglierà su di me come se fossi sua figlia.
Avevo chiuso il pezzo, poi però ci siamo fermati alla pompa di benzina e José è tornato con una Coca per me e niente, sono senza parole.
Arriviamo finalmente alla frontiera e vado per pagare il visto ma sorpresa, non ho abbastanza soldi, nessun pagamento con carta di credito, nessun bancomat. Senza pensarci un secondo il ragazzo che parla francese mi da 50,00 dollari e mi dice:
“Muoviti che l’autista vuole lasciarti qui, intanto vado a parlare con lui”
Corro, compilo il documento, pago, faccio la foto, lascio le impronte e finalmente posso entrare in Mozambico. Raggiungo il pulmino dove tutti scalpitano (ma davvero? Io ho aspettato 2h alla stazione… Vabbè) e lo rassicuro che appena arriveremo a Maputo, preleveró e gli restituirò i soldi ma lui mi risponde:
“Stai tranquilla, ormai siamo amici”.
Chissà se io avrei mai prestato 50,00 dollari ad uno sconosciuto incontrato in autobus poche ore prima, di certo, però, so come sarà in futuro.
Credo sia umano avere dei pregiudizi, sono delle strutture mentali che il nostro pigro cervello costruisce per usare meno energia credendo di aver così già la soluzione senza elaborarne una. Per fortuna che la realtà continua a dimostrarci che non sapremo mai davvero cosa aspettarci! Tu che ne pensi?
L’apertura emotiva è l’abito più bello che si possa indossare. Sei una straordinaria ambasciatrice del nostro paese Nicky